Banche centrali, guerra, inflazione e scelte future

Le banche centrali, sulla scia della FED, hanno decretato la fine della repressione finanziaria abbracciando la causa della lotta all’inflazione in un contesto di continui shock stagflattivi, ovvero negativi per la crescita, ma forieri di pressioni inflazionistiche.
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Le banche centrali, sulla scia della FED, hanno decretato la fine della repressione finanziaria abbracciando la causa della lotta all’inflazione in un contesto di continui shock stagflattivi, ovvero negativi per la crescita, ma forieri di pressioni inflazionistiche. Tra questi si ricorda il Covid che ha colpito l’Europa per due anni e che, in questo momento, ha ancora una frontiera aperta in Cina dove si sta praticando un rigoroso contenimento del contatto sociale, con effetti anche a livello globale.

Andrea Delitalia Pictet banche centrali
Andrea Delitalia, Pictet Asset Management


Poi c’è la guerra russo-ucraina con effetti pronunciati soprattutto in Europa: in effetti, se le sanzioni arriveranno ad azzerare le forniture di gas russo per il continente europeo, avremo sicuramente recessione con inflazione persistente, è questo che sta preoccupando i mercati in questi giorni.
La determinazione delle banche centrali si è fatta sempre più stentorea nonostante la natura prevalentemente esogena dell’inflazione, che dipende in larga misura dai colli di bottiglia nella produzione e distribuzione o quanto meno dalla diversa elasticità della domanda post- covid verso l’offerta di beni e servizi. Sotto questo profilo, qualche accenno di attenuazione della pressione sui prezzi si evince dal complesso delle materie prime, noli e materie alimentari in particolare e dalle prime lievi sorprese positive sul fronte dei dati di inflazione al consumo in America.
La vera novità delle ultime settimane è l’affiorare delle preoccupazioni sulla tenuta della crescita. Il rischio di recessione tra la fine di quest’anno e il 2023, secondo alcune stime, sfiora ormai o supera il 50%. Per esempio, il Nowcast della FED di Atlanta, per il secondo trimestre di quest’anno, è negativo addirittura di un 2%. Resta da vedere se su questo prevarranno motivi tecnici o macroeconomici, cosa che scopriremo nelle prossime settimane.
Questo è in effetti il risultato coerente con la posizione del Presidente della Fed Powell che in giugno ha portato le proprie previsioni sul tasso di interesse a breve, quello sui Fed funds, poco sotto il 4% per il prossimo anno, esattamente a 3,75% per dicembre 2023, sciogliendo ogni riserva sulla disponibilità a sacrificare crescita pur di riportare l’inflazione vicino al suo target del 2%. D’altro canto, non potendo la Banca Centrale far molto per alleviare le problematiche di cui abbiamo parlato, che limitano l’offerta, si rassegna a contenere la domanda.
Ora il mercato prevede che, entro i prossimi tre trimestri, il sentiero dei tassi raggiunga il livello di neutralità, cioè circa lo 0-0,5% in termini reali ovvero circa il 3% nominale in America, che rappresenta un limite: in effetti, la storia insegna che quando la FED si spinge oltre questo livello, quasi sempre l’economia è destinata ad una recessione. La ragionevole speranza è che, questa volta, se recessione deve essere sia “mild”, ovvero leggera, cosa per la verità plausibile in questo contesto perché le finanze familiari e quelle delle società sono in ottime condizioni. Questo non richiede, dunque, le convalescenze tipiche delle recessioni degli ultimi 50 anni dove bisognava smaltire la leva finanziaria in qualcuno di questi settori. Cosa hanno fatto i mercati finanziari in tutto questo? Il cambio di passo delle Banche Centrali, ad eccezione della Banca Giapponese, è stato il fattore di gran lunga determinante per tutte le asset class in questa prima metà del 2022. La revisione del sentiero previsto dai tassi di interesse, americani in particolare, ha spinto il rendimento del T-Note decennale americano un 1,5 punti più in alto in termini reali, infliggendo ai bond una perdita pari a circa dieci volte tanto.
A sua volta, il maggiore rendimento obbligazionario, ha esercitato una pressione verso l’alto anche sui rendimenti attesi delle azioni, ovvero gli earnings yield, che si sono alzati di altrettanto, imponendo evidentemente una perdita importante anche al sistema azionario. Il premio di rischio delle azioni verso le obbligazioni rimane quindi inalterato in America e circa un altro punto percentuale più elevato in Europa, dove si è aggiunto un premio per la guerra alle porte del continente.
Ora che i rendimenti americani hanno raggiunto la zona di neutralità, questa funge da tetto almeno ai rendimenti di medio e lungo termine dato che, una banca centrale ancora più aggressiva oggi, imporrebbe dei tagli maggiori in futuro a causa di una recessione.
Con premi di rischio azionario (equity risk premium) invariati, le azioni non sono veramente care da un punto di vista oggettivo, a meno che gli earnings per share previsti, cioè gli utili, non siano deludenti, cosa che in effetti è ancora del tutto possibile se i rischi recessivi aumenteranno. Infatti, le previsioni di utili sono ancora in crescita di circa il 10% sia per quest’anno che il prossimo. Ma per fortuna molto è dovuto al settore energia e materials che, ovviamente, sono gli scudi quest’anno, mentre per tutti gli altri settori le previsioni sono già oggi molto più contenute.
In caso di crescita negativa, però, i rendimenti obbligazionari dovrebbero a questo punto rivedere le prospettive di medio periodo, prevedendo dei tagli di tassi sempre più profondi man mano che la recessione appare inevitabile o più profonda. Questo riassegna un ruolo diversificante, rispetto agli attivi rischiosi, alla parte lunga delle obbligazioni di buona qualità americana, ovvero i titoli di stato come i T-Note o il T-Bond a 30 anni, che per la prima volta troviamo anche nei portafogli delle nostre principali strategie muti-asset.

A cura di Andrea Delitala, Head of Euro Multi Asset di Pictet Asset Management

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