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Oro, l’aumento del rischio non impatta sul metallo giallo

Il 26 settembre, come previsto, il FOMC ha aumentato i Fed fund di 25 punti base, al 2-2,25%, e ha eliminato dal suo statement la frase che descrive la sua politica monetaria come “accomodante”.

L’economia statunitense rimane forte, come dimostra la serie di dati macroeconomici positivi (un tasso di disoccupazione ai minimi da 50 anni e un ISM non manifatturiero ai massimi da 20 anni). Ciò ha consentito alla Fed di rivedere al rialzo le previsioni del PIL per il 2018 e 2019, passando rispettivamente dal 2,8% al 3,1% e dal 2,4% al 2,5%, e di continuare con i suoi incrementi graduali. Ciò continua a giovare al dollaro e ha fatto salire il rendimento dei Treasury USA al 3,2% (il livello più alto dal 2011), ma pesa sul prezzo dell’oro.

L’oro sembra totalmente immune da qualsiasi spinta rialzista; non è riuscito ad avere alcun tipo di attrattiva come bene rifugio nemmeno nelle attuali turbolenze. Non sta nemmeno reagendo all’escalation della guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti, anche dopo che gli Stati Uniti hanno annunciato un nuovo giro di tariffe per un valore di 200 miliardi di dollari di merci cinesi e la Cina ha reagito. Né riceve una spinta dai guai dell’Europa (la Brexit, la legge di bilancio italiana e le preoccupazioni di deficit che questa sta sollevando).

Nemmeno in Asia stiamo assistendo a un forte sostegno dei prezzi da parte degli acquisti fisici. La domanda è rallentata in Cina, il più grande consumatore mondiale di oro, poiché la svalutazione dello yuan cinese sembra aver ridotto drasticamente l’appetito cinese per il metallo giallo. La domanda dell’India, che sta attraversando il periodo dei festival e delle nozze, normalmente un momento di corsa all’oro che avrebbe dovuto contribuire a sostenere il prezzo dell’oro, non si è ancora materializzata. L’oro ha anche risentito dei deflussi dagli ETF. Le partecipazioni nell’SPDR Gold ETF continuano a diminuire e sono ora ai livelli più bassi dal febbraio 2016, il che dimostra il totale disinteresse degli investitori per questo metallo.

Nel breve termine, l’unico barlume di speranza per il prezzo dell’oro arriverà dalle posizioni nette non commerciali della Commodity Futures Trading Commission degli Stati Uniti, che sono ai minimi di 17 anni e potrebbero eventualmente innescare una breve ricopertura e un rimbalzo del metallo giallo. A più lungo termine, l’oro potrebbe iniziare ad avere un sostegno nel caso in cui emergano preoccupazioni in materia di inflazione – in caso di forte aumento dei prezzi del greggio e/o dei salari statunitensi o, all’estremo opposto, se la crescita economica mondiale e soprattutto statunitense dovesse diminuire.

Tuttavia, riteniamo che la domanda interna degli Stati Uniti dovrebbe continuare a beneficiare di una politica fiscale indulgente e di un mercato del lavoro sano, e nel terzo trimestre si prevede una crescita del PIL del 3-3,5%, che è ancora al di sopra del PIL potenziale. Le previsioni di crescita in aumento per l’anno in corso e per il prossimo da parte della Fed sono un’indicazione della sua fiducia nel fatto che la guerra commerciale in corso non rappresenti una minaccia. Essendo gli USA più chiusi rispetto all’Europa, che invece dipende maggiormente dal commercio estero, l’economia americana procede a pieno regime.

A questo punto siamo convinti che l’oro vedrà un limitato rialzo, oscillando tra i 1180 e i 1300 dollari, poiché la forza dell’economia statunitense e la conseguente stretta monetaria della Fed terranno sotto controllo il prezzo del metallo giallo nei mesi a venire.

A cura di Névine Pollini, Senior commodity analyst di Union Bancaire Privée – UBP

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