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2023: l’anno della recessione?

L’economia globale sta entrando in recessione. Il prossimo anno ci aspetta un significativo rallentamento, ma occorre tenere a mente che ci sono molti fattori in gioco e, quindi, sussiste una certa incertezza su quale forma assumerà esattamente questa recessione. Secondo le nostre previsioni il rallentamento sarà trainato dalla recessione negli Stati Uniti e in Europa, provocata da un’inflazione persistente e dall’aumento dei tassi d’interesse, e da un’economia cinese ancora debole. Queste tre aree saranno seguite a stretto giro dal Giappone, così che le più grandi economie al mondo risulteranno stagnanti o in contrazione. La causa scatenante di tutta questa situazione ha a che vedere con l’inflazione e con i rialzi dei tassi d’interesse messi in atto in risposta ad essa. L’inflazione è iniziata nel periodo post-pandemico con i colli di bottiglia nelle catene di approvvigionamento causati dai rincari dei beni ed è proseguita con lo shock dei prezzi di materie prime ed energia provocato dalla guerra in Ucraina, per finire con l’impennata dell’inflazione dei servizi trainata da una forte crescita dei salari (soprattutto negli Stati Uniti).

Le banche centrali, in risposta, hanno aumentato i tassi in modo estremamente rapido; negli Stati Uniti, ad esempio, si è avuto un rialzo dei tassi di 300 punti base (pb), corrispondente a un incremento di 12 volte dei costi di finanziamento. Questo fatto inizierà chiaramente a far sentire i propri effetti; il mercato immobiliare USA, ad esempio, è già in recessione. I tassi dei mutui sono cresciuti così velocemente da determinare un calo delle vendite “pendenti” di case, che rimangono così a lungo sul mercato. Ciò inizierà a influire sugli utili, sul CAPEX, sulla spesa in salari ecc. delle aziende, specialmente qualora la Federal Reserve USA (Fed) incrementi i tassi per altri 150 pb nel corso dei prossimi mesi.

Stephen Green Capital Group recessione
Stephen Green, Capital Group

Se ci ritroveremo o meno in stagflazione dipende da un certo numero di fattori, ad esempio dall’eventualità che l’inflazione si riveli persistente o che le banche centrali si dimostrino infine in grado di convivere con un’inflazione più elevata per dare nuovamente impulso alla crescita. Per le società nel settore dei servizi gran parte dei costi è rappresentata dal lavoro; quindi, una forte crescita dei salari produce un’inflazione dei servizi che può rimanere elevata. Negli Stati Uniti, a nostro parere, i salari continueranno a godere di una forte crescita a prescindere dai rialzi dei tassi da parte della Fed e dall’aumento della disoccupazione. Alla base di questo fenomeno vi è un’enorme carenza di lavoratori; almeno quattro milioni di persone sono infatti uscite dal mercato del lavoro per diversi motivi, tra cui long COVID, meno immigrazione, pensionamento anticipato o ricerca di un diverso equilibrio vita/lavoro. Sussistono quindi diversi “mismatch” che spingono al rialzo i prezzi. La nostra view complessiva è che l’inflazione diverrà ancor più persistente dato che dipende in gran parte dai salari, tendenzialmente più vischiosi. Al contempo, tuttavia, credo che le banche centrali allenteranno tempestivamente le politiche per limitare i danni eventualmente provocati dalla recessione o dalla conseguente volatilità, proprio come hanno fatto negli ultimi 20 anni.

Per quanto riguarda la Cina al momento ci troviamo sull’orlo di una flessione, con l’economia cinese colpita da almeno tre grandi shock. Uno è rappresentato dal mercato immobiliare: negli ultimi tre anni il governo ha cercato di contenere la bolla, provocando difficoltà di breve periodo per promotori e famiglie. C’è poi la politica “zero COVID” dinamica: il governo ha promesso di eliminare il COVID dall’economia, il che significa lockdown intermittenti nei distretti municipali, interruzioni dei trasporti e, ogni volta, un duro colpo per i consumi. Inoltre, considerando che anche Stati Uniti ed Europa hanno le loro difficoltà economiche, il motore dell’export cinese inizia ad arrancare. Il 2020 e il 2021 sono stati ottimi anni per il sistema dell’export cinese, in grado di sfruttare a proprio vantaggio la situazione pandemica, ma la crescita delle esportazioni è ormai sul punto di entrare in territorio negativo.

Questi tre shock continueranno a far sentire i propri effetti nel corso dei prossimi 6-12 mesi e, fatto interessante, stavolta non ci si aspetta alcuno stimolo di grandi dimensioni da parte di Pechino, secondo cui queste bolle devono sparire da sole. A nostro avviso ci sono due indicatori importanti, da guardare prevedere la crescita economica cinese nel prossimo anno che sono la crescita del credito e le vendite di immobili residenziali. La prima è più lenta che negli ultimi 10-20 anni, si aggira attualmente intorno al 10% e, secondo le nostre previsioni, non è destinata a subire una particolare accelerazione. Si tratta di una situazione molto diversa da quella del 2009 o del 2017, quando Pechino era in modalità “politiche accomodanti”. Le banche concedevano più prestiti e le maggiori emissioni di titoli di Stato trainavano la spesa in infrastrutture. Venivano inoltre erogati più mutui ipotecari dato che le persone erano più propense a comprare una casa. Oggi queste attività si sono notevolmente ridotte.

Le vendite di case sono in calo: da circa 15 mesi a questa parte circa si contraggono di un 30% annuo. L’immobiliare residenziale è un settore molto importante in Cina: se le vendite di case ammontano approssimativamente al 14% del PIL, quando si tiene conto di tutte le attività associate, come realizzazione di strade e condutture e servizi di pubblica utilità, leasing, gestione e così via, si arriva all’incirca al 25%. Un quarto dell’economia che si contrae a questi livelli su base annua è un fatto estremamente negativo e che continuerà a ripercuotersi su materie prime e sentiment dei consumatori. Stiamo già vedendo diversi promotori immobiliari andare in default sui propri obblighi di pagamento e fallire. Questo può voler dire fatture non liquidate per attrezzature da costruzione e materiali o salari non pagati. Al momento il governo sta cercando di aiutare il mercato immobiliare residenziale con cautela, consentendo alle città di ridurre i tassi dei mutui, ma tali misure non risultano molto efficaci se la popolazione stessa è cauta. Il sentiment potrebbe migliorare qualora le vendite di case subissero una ripresa, ma attualmente stanno tutti aspettando di vedere se i prezzi andranno incontro ad una correzione al ribasso e se altri promotori finiranno a gambe all’aria; quindi, la fragilità dell’immobiliare residenziale potrebbe durare anche altri 6-12 mesi.

L’inflazione è in aumento anche in tutti i mercati emergenti, quindi ci sono delle somiglianze, ma anche delle notevoli differenze. In Asia e, in particolare, in Paesi come Corea, Thailandia e Indonesia, il tasso d’inflazione primario si aggira tra il 6 e l’8%, con quella inerziale a quota 4-5%. Si tratta di valori piuttosto alti, ma i ME sono abituati a valori “piuttosto alti” quando si parla di inflazione; quindi, si tratta di una situazione niente affatto insolita, specialmente rispetto al contesto USA in cui gli attuali livelli sono eccezionalmente elevati. Le banche centrali dei ME stanno aumentando i tassi, ma non in modo particolarmente aggressivo: come ho già menzionato, nel corso dell’ultimo anno la Fed ha rivisto al rialzo i tassi di 300 pb, laddove in gran parte dei ME asiatici essi sono incrementati di 100-200 pb. L’Asia vuole contenere l’inflazione, ma la sua situazione è diversa da quella con cui devono fare i conti gli Stati Uniti; nell’area non si assiste ad esempio ad una rapida crescita dei salari, il che significa che l’inflazione, probabilmente, non sarà così duratura. Al contempo è sotto l’occhio di tutti che Stati Uniti ed Europa stanno per entrare in recessione; quindi, per le banche centrali asiatiche non è il caso di inasprire eccessivamente le politiche monetarie in un contesto di questo tipo. È questa l’attuale situazione in Asia e nei ME: un certo aumento dell’inflazione e qualche rialzo dei tassi, ma le sfide non sono le stesse che deve affrontare la Fed.

A cura di Stephen Green, Economista di Capital Group

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