diamanti
Share on linkedin
Share on email
Share on twitter
Share on facebook
Share on whatsapp

Quei diamanti che non brillano più

Banco Bpm, Unicredit, Mps, Intesa Sanpaolo, Banca Aletti e la truffa dei diamanti spacciati come investimento sicuro

Articolo tratto dal numero maggio/giugno di Asset Management

Le ultime novità riguadro all’indagine «Crazy Diamond», sui famigerati diamanti venduti a prezzi gonfiati presso gli sportelli di Banco Bpm, Unicredit, Monte dei Paschi, Intesa Sanpaolo e Banca Aletti, risalgono alla metà dello scorso gennaio, quando la Guardia di Finanza di Milano ha sequestrato quote societarie e attività finanziarie per un controvalore di 34 milioni di euro circa alla holding finanziaria Magifin e alla sua controllata Diamond Private Investment (Dpi) di Roma. Il sequestro preventivo è stato disposto dal giudice per le indagini preliminari su richiesta del pm Grazia Colacicco. A breve, il pm potrà chiedere il rinvio a giudizio per 87 persone fisiche e sette giuridiche: la Dpi e la Intermarket Diamond Business di Milano (Idb, ora fallita), le due società che vendevano i diamanti, e gli istituti di credito citati che li piazzavano ai loro clienti. Società e banche alle quali sono già stati sequestrati circa 700 milioni di euro. Ecco un breve riassunto delle puntate precedenti, quelle di un mega raggiro che ha coinvolto anche vip del mondo dello spettacolo (Vasco Rossi, Federica Panicucci, Simona Tagli), l’industriale Diana Bracco, oltre a svariate migliaia di ignari clienti (anche se per ora gli investigatori hanno ricostruito le posizioni solo di qualche centinaia di persone).

UNA TRUFFA LUNGA 5 ANNI
Lo scandalo scoppiato a febbraio 2019 riguarda frodi che si sarebbero verificate, in realtà, nel quinquennio 2012- 2016. In base alla ricostruzione della procura, i diamanti proposti come investimento e «bene rifugio» sarebbero stati venduti a prezzi gonfiati rispetto al loro reale valore con la presunta complicità delle cinque banche. In realtà, parte dell’investimento finiva in commissioni, coperture assicurative, costi per la certificazione etica e gemmologica e profitto delle società. Oltretutto, per disinvestire, i clienti avrebbero dovuto pagare ancora, perdendo infine gran parte della somma investita. Le indagini sono state chiuse il 2 ottobre 2019. La Dpi e la Idb sono accusate di truffa aggravata, auto riciclaggio, impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita. La complicità delle banche coinvolte nello scandalo sarebbe stata ricompensata con diversi benefit. In particolare, la Idb avrebbe fatto una serie di «regali» ai vertici di Unicredit e del Banco Bpm. Uno degli indagati, l’ex dirigente del Banco Bpm, Maurizio Faroni, avrebbe ricevuto «oggetti di archeologia» e 150mila euro di «donazioni» a una onlus di cui era presidente. Le regalie sarebbero andate anche a favore di altri dirigenti e direttori di filiali delle banche finite nel mirino dell’inchiesta, incluso Maurizio Zancanaro, ex dirigente di Banca Aletti. Sono indagati anche l’ex dirigente di Bpm, Andrea Mencarini, e il responsabile pianificazione e marketing di Bpm, Pietro Gaspardo. Il nucleo di polizia economico-finanziaria di Milano ha già proceduto con il sequestro diretto per 149 milioni di euro alla Idb, 165 alla Dpi, 84 a Banco Bpm (inclusa Aletti); 35,5 milioni a Mps; 32,7 a Unicredit; 15 a Intesa Sanpaolo.

LE VITTIME E I RISARCIMENTI
Nell’atto di chiusura delle indagini, risulta che sono oltre 300 le vittime del raggiro che intendono costituirsi parte civile. Il loro numero, però, potrebbe crescere. Per questo, il pm Colacicco tiene aperto un fascicolo bis per chiunque si dichiari, prossimamente, parte lesa. MF-Milano Finanza ha riportato che gli istituti di credito coinvolti (tranne il Banco Bpm) avrebbero avviato la procedura per restituire il denaro versato dai clienti e starebbero rilevando le pietre. Banco Bpm, invece, avrebbe deciso di trattare privatamente con ciascun cliente, offrendo il 30% in contanti alla controparte che dovrebbe tenersi le pietre. Secondo Marco Ticozzi, l’avvocato con studio legale a Mestre, Venezia, Treviso e Vicenza che assiste le vittime del raggiro in tutta Italia attraverso una rete di collaboratori cui domiciliare i contenziosi da lui direttamente seguiti, esistono le premesse sia per rivendicare i diamanti acquistati dai clienti e rimasti in possesso della società fallita sia sulla prospettiva di ottenere un risarcimento. Bisogna considerare l’insolvenza del venditore e valutare la responsabilità delle banche. Intanto, il Tribunale di Verona, con sentenza del 23 maggio 2019, ha condannato al rimborso e al risarcimento dei danni Banco Bpm in relazione a questo scandalo. Considerando il fallimento di Idb, è chiaro che la tutela dei clienti coinvolti nello scandalo dei diamanti e intenzionati a ottenere il rimborso passa per un’eventuale iniziativa contro le banche intermediarie. La questione è complessa ma la sentenza del Tribunale di Verona lascia sperare in un esito positivo.

L’ENNESIMO SCHEMA PONZI
Le banche coinvolte nella truffa dei diamanti hanno proposto ai clienti le pietre come bene rifugio. In realtà, il diamante è un bene di consumo, non un prodotto finanziario. La vendita di un diamante può richiedere molto tempo, di conseguenza l’acquisto di un diamante da investimento non è un buon affare. Sono troppe le incognite e si finisce in un circuito chiuso che non guarda al mercato. Allo sportello bancario, i diamanti vengono proposti come un bene rifugio, esentasse e redditizio, ma a lungo termine. Il prezzo a cui vengono venduti al cliente è doppio rispetto ai valori di mercato e le commissioni di uscita sono decisamente salate. Quando un cliente necessita di liquidità, vendere le pietre non è affatto semplice. Il sistema può andare avanti solo finché la banca trova un altro cliente a cui rivendere il diamante a prezzo gonfiato. E chi assicura che, dopo 10-20 anni, i diamanti si possano rivendere? Nessuno.

Commento a cura di Nino Gavioli

Non perdere le notizie che contano per gli investimenti.
Registrati alla nostra newsletter.