Candriam: Tutto quello che l’ultimo report IPCC non dirà mai
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Tutto quello che l’ultimo report IPCC non dirà mai

Candriam:  Si è parlato molto dell’ultimo report IPCC e di quello che ha rivelato sullo stato del clima e la sua probabile evoluzione.

 

Ma in realtà ci sono molte cose che questo report non dice. La relazione non dice come ridurre le emissioni di gas serra di origine antropogenica. Il documento, di quasi 4.000 pagine, rappresenta il contributo del Gruppo 1 dell’IPCC (gruppo che si focalizza sullo studio del clima al fine di realizzare modelli quanto più accurati possibile sul comportamento futuro del clima, secondo diversi scenari inerenti alle emissioni di gas serra) alla sesta relazione di sintesi dell’IPCC, che sarà pubblicata tra un anno. Detto questo, la mancanza, in questa prima relazione, di una soluzione complessiva non fa venir meno l’urgenza, alla lettura del documento, di agire in tutti i modi ormai conosciuti da anni per ridurre le emissioni. Non serve un altro report dell’IPCC per sapere che bruciare un combustibile fossile contribuisce direttamente al cambiamento climatico. Chiedere ai Paesi misure più ambiziose per modificare le proprie politiche pubbliche e i propri comportamenti privati sulla base di questi risultati non è un passo complicato, ma purtroppo è difficile da compiere. Ma le difficoltà non stanno tanto nell’incertezza sulle misure da adottare, quanto piuttosto nell’inerzia collettiva e negli incentivi a breve termine che caratterizzano l’azione pubblica in molti Paesi.

Questa relazione non ci dice nulla di nuovo. Le relazioni dell’IPCC si basano sulle conoscenze scientifiche disponibili al momento della loro stesura. Man mano che migliora la comprensione degli scienziati sui ghiacciai, gli oceani e l’atmosfera, le previsioni dell’IPCC si fanno più accurate. A nostro parere è tuttavia sbagliato voler aspettare il prossimo report, e poi il successivo ancora, nel tentativo di basare qualsiasi decisione su dati scientifici più accurati possibile, o addirittura sperare in conclusioni che siano l’opposto di quelle conosciute finora. Ciò che è cambiato dal 1990 non è la traiettoria del cambiamento climatico, né la sua origine antropogenica, quanto il fatto che gli scienziati sono ora in grado di corroborare queste convinzioni con una quantità molto più grande di dati. Questa relazione potrebbe essere l’ultima dell’IPCC. Il primo report dell’IPCC risale al 1990. Trentuno anni e quasi sei rapporti dopo cosa è stato fatto in termini di riduzione dei gas serra a livello mondiale? Dal 1990 le emissioni sono aumentate del 40%, mentre la “diplomazia del clima” è passata di conferenza in conferenza senza che né il protocollo di Kyoto né gli accordi di Parigi abbiano di fatto determinato una riduzione delle emissioni. E tra un rapporto IPCC e l’altro, il mondo politico ed economico è rimasto sospeso, in attesa dell’edizione successiva che avrebbe fornito i dati decisivi per creare finalmente quella scossa necessaria a prendere decisioni indispensabili per ridurre davvero le emissioni.

È importante rendersi conto che l’IPCC non è la fonte primaria di conoscenza scientifica sul clima, bensì un organismo delle Nazioni Unite volto a fornire una sintesi periodica sull’argomento, ad opera di un gruppo di scienziati riconosciuti. Questa relazione non annuncia solo potenziale scenario catastrofico in cui l’acqua sale di 50 metri o la temperatura a Parigi supera i 50°C. L’aumento del livello dei mari è stato a lungo al centro di gran parte dell’immaginario collettivo sul tema del cambiamento climatico. Secondo lo scenario peggiore dell’IPCC, il “livello medio” dei mari si alzerà di un metro entro il 2100. Come sottolineato, si tratta di un livello medio, ma proprio come avere un conto in banca con un saldo “medio” di 2.000 euro può nascondere grandi fluttuazioni, un livello medio non dice nulla delle fluttuazioni locali e più o meno temporanee, come le inondazioni causate da tsunami e tempeste. Ciò che emerge da questo report con più precisione e certezza rispetto al passato è che dietro una media delle temperature mondiali già aumentata di circa 1°C (e che probabilmente continuerà a salire) si nasconde un aumento molto più significativo della frequenza e dell’intensità degli eventi meteorologici estremi in alcune aree del mondo.

Ad esempio, con un aumento della temperatura media globale di “soli” 2 gradi, un’ondata di calore come quella registrata in Francia nel 2003 potrebbe verificarsi in media ogni 3-4 anni. In sintesi, sono soprattutto la frequenza e l’intensità di fenomeni considerati in passato come estremamente rari, i cosiddetti “freak events”, oltre all’aumento inarrestabile della temperatura media, a rischiare di destabilizzare le nostre società. Questo report rappresenta un enorme fonte di conoscenze ma solo pochissime persone lo leggeranno. Eppure, non ci dice nulla che non sapessimo già, e non ci dice nulla su un punto essenziale: mentre le grandi linee del cambiamento climatico e le principali soluzioni sono note da decenni, come si possono convincere gli stakeholder più scettici (e sono molti) ad agire? Non ci dice nulla al riguardo, perché non è questo il suo compito ma l’urgenza sta nell’azione, e non nella lettura di relazioni, per quanto fondate esse possano essere.

 

A cura di David Czupryna, Head of ESG Development di CANDRIAM

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