Diversificazione: l’antidoto dell’incertezza

Il miglior antidoto all’incertezza radicale resta la diversificazione, vale la pena ricordarlo nell’anniversario dei settant’anni della Moderna Teoria del Portafoglio, una corretta ripartizione dei rischi difende il valore del capitale investito e offre la prospettiva di stabile crescita nel tempo.
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Il miglior antidoto all’incertezza radicale resta la diversificazione, vale la pena ricordarlo nell’anniversario dei settant’anni della Moderna Teoria del Portafoglio, una corretta ripartizione dei rischi difende il valore del capitale investito e offre la prospettiva di stabile crescita nel tempo.

Aprile è il più crudele dei mesi” scrive Eliot nel poemetto “La terra desolata”. Quest’anno però anche i primi tre mesi non hanno scherzato, l’indice S&P 500 chiude a poco meno del 5%, il Nasdaq perde il 9%, non molto diverse le borse europee, dal calo di oltre il 9% della Borsa di Francoforte al -8,5% di Piazza Affari.

Non è andata meglio alle obbligazioni: scosso dall’inflazione e dalla guerra, da inizio anno l’indice benchmark dei bond globali è sotto di oltre il sei e mezzo percento, il rendimento del Treasury a dieci anni è salito nell’intorno di ottanta punti base tornando ai livelli del maggio 2019.

Negli ultimi giorni è accaduto che i tassi a breve termine americani siano stati, per poche ore e per pochi punti base, superiori a quelli delle scadenze più lontane. È la temuta condizione di “inversione”, un segnale interpretato come anticipatore di recessione. La curva dei tassi è generalmente inclinata verso l’alto perché ci si aspetta che, in condizioni ordinarie, il rischio di prestare il denaro per più tempo abbia un compenso superiore rispetto alle scadenze più brevi.

Una curva che si appiattisce o che si inverte, ovvero con i rendimenti delle scadenze più lunghe che si avvicinano o scendono sotto quelli delle scadenze più brevi, segnala che il mercato si aspetta un aumento dei tassi a breve termine e ha poca fiducia nelle prospettive di crescita dell’economia nel più lungo termine. Questo è il motivo per cui l’inversione della curva è un temuto segnale di recessione.

Ma anche nei movimenti della struttura dei tassi non ci sono automatismi, meglio essere cauti nel prendere il significato dell’inversione al suo valore facciale; oltre alla scontata fragilità di qualsiasi previsione, questa volta la curva è stata pesantemente condizionata da fattori straordinari come il programma di Quantitative Easing della Federal Reserve.

Gli acquisti massivi della banca centrale hanno distorto verso il basso la parte lunga della struttura dei rendimenti, ne hanno tenuto sottovalutato il rendimento che ora, con l’avvio da parte della Fed della riduzione del bilancio, è verosimile che risalga. Un altro indizio che suggerisce prudenza è lo spread tra le scadenze lunghe e quelle molto corte, sotto i diciotto mesi: un paio di settimane fa Powell ha definito più affidabile proprio questa grandezza e, in effetti, la curva del differenziale tra la scadenza a dieci anni e quelle a tre mesi non è invertita.

Più che una storia di recessione la curva americana sembra raccontare una storia di inflazione. Lo scenario complesso e i molteplici possibili esiti portano le analisi a frastagliarsi, l’incertezza deforma e ottunde lo scenario economico, l’errore di policy dei banchieri centrali è l’elefante nella stanza.

In questa condizione non è facile individuare credibili direzioni del mercato. Da anni vale il mantra del TINA ovvero che, a questi livelli di tassi, non ci sono alternative alle azioni. Con l’aumento dei rendimenti e il restringimento degli spread con gli earning yield azionari ci si aspetterebbe un indebolimento dell’argomento.
Ma prima di concludere che l’aumento dei rendimenti spiazza l’argomento dell’assenza di alternative all’azionario, va tenuto conto del contesto inflazionistico: l’inflazione è un male per le azioni ma per le obbligazioni è molto peggio.

Tra pochi giorni partirà la stagione degli utili del primo trimestre, circa un centinaio di società hanno dato anticipazioni dei ricavi: oltre la metà sono negative e, aggregate in media, danno valori di poco inferiori alle medie degli ultimi cinque e dieci anni. In attesa di conoscere i risultati veri e propri teniamo conto di tre aspetti:

  1. negli ultimi anni gli utili, e le loro previsioni, hanno mostrato una forte volatilità: nel 2018 il taglio delle tasse di Trump li ha spinti in alto, sono rimasti fermi nel 2019, il 2020 è stato l’anno della pandemia che ha fortemente discriminato l’andamento dei vari settori, poi lo strepitoso rimbalzo nel 2021. L’aumento straordinario del 2021 rende meno probabile che quest’anno vada in onda lo stesso film e se teniamo conto delle novità nella sceneggiatura, inflazione e guerra, le aspettative andranno abbassate;
  2. proprio a motivo della volatilità e delle differenze di comportamento tra settori è il momento di essere molto selettivi, non è il caso di “comprare tutto il pagliaio”, per usare l’espressione del grande Jack Bogle, ma di guardare con attenzione alle singole società e settori, è il momento della gestione attiva;
  3. in un contesto inflazionistico sono favorite quelle società e settori che riescono a mantenere i margini, a traslare cioè i costi sui prezzi finali senza compromettere le vendite, ad esempio la tecnologia e i produttori di beni di consumo di alta gamma.

A cura di Carlo Benetti, Market Specialist di GAM (Italia) SGR

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